DONNE E AFFARI NEL XV SECOLO – LA COMUNITÀ EBRAICA NELL’ENTROTERRA VENEZIANO
Testo di Claudio Barbaglio, tutti i diritti riservati
Che la storia
medievale sia quasi esclusivamente costituita da su gesta “maschili” è un dato
di fatto, al tempo in cui gli accessi alla politica, alle armi, all’arte e
soprattutto alla cultura erano quasi esclusivamente riservati alla componente
maschile della Società, alle donne venivano precocemente impartite lezioni per
fronteggiare una vita dedita alla famiglia e agli affari domestici; eppure non
sempre fu così. In situazioni particolari, all’interno di comunità ben definite
(nello specifico una comunità ebraica nel territorio veneziano), questa regola
comune sembrò presentare delle eccezioni ben definite. Un caso interessante riguarda
la storia di Mina da Aydelbach che ottenne, insieme ai figli Giuseppe e Bonomo,
la condotta per stabilirsi in Trieste e condurvi un’attività di tipo
feneratizio (prestito di denaro). La donna si occupò in maniera autonoma della
gestione del banco senza avere accanto alcuna presenza maschile, all’infuori
dei figli ancora minorenni, che l’aiutasse nell’amministrazione degli affari o
che la rappresentasse di fronte alle autorità. Mina era inoltre titolare della
tutela dei figli in minore età, il cui patrimonio era così affidato alla sua
amministrazione. La donna così, attraverso la diretta conduzione del banco, aveva
dunque la possibilità di gestire direttamente insieme al marito la somma di
denaro che aveva condotto con sé il giorno del matrimonio come dote e che
rappresentava inoltre la quota dell’eredità paterna alla quale aveva diritto.
Secondo i maestri la dote concessa dal padre alla figlia doveva essere
sufficiente per permettere alla donna di provvedere al proprio guardaroba per
un anno intero. Il denaro che andava a costituire il fondo dotale era
depositato dal padre nell’attività economica gestita dal genero. In caso di
divorzio il marito doveva restituire la dote o farla restituire dagli eredi
maschi. Benché il marito avesse una piena disponibilità della dote durante la
vita coniugale, i denari della dote, consegnati dal padre della sposa allo
sposo, dovevano però essere amministrati con oculati investimenti e fatti
fruttare nell’attività di un banco o di una qualche attività commerciale. I
guadagni ottenuti venivano utilizzati in parte per sostenere le spese del
ménage familiare e in parte erano registrati come proprietà esclusiva della
donna che ne poteva quindi disporre a suo piacimento. Una buona parte dei
ricavi ottenuti con l’investimento della dote sarebbero andati a costituire
l’insieme dei beni che le madri avevano la possibilità di lasciare alle figlie
come quote di eredità materna. Un altro caso simile vide per protagonista
ancora volta una donna della comunità ebraica di Trieste la quale, rimasta
vedova, dovette occuparsi degli affari
legati al banco di prestito appartenuto al marito, gestendolo a nome suo e
nell’interesse dei figli dei quali essa stessa si era nominata tutrice e
governatrice. Si trattava di Gentile, vedova di Salomone del fu Leone d’Oro, la
quale in un documento trascritto nei registri del competente ufficio comunale
(detto vicedomino) il 3 settembre del 1470 fece richiesta, in qualità di madre
di Maier, Giuseppe, Leone, Bona e Giusta, di essere ascoltata dal vicario e dai
giudici de sub logia (sotto la loggia nuova del Comune) per esporre la
situazione economica e patrimoniale in cui versava dopo la morte del marito.
Gentile chiese, in mancanza di un testamento fatto dal coniuge
nell’approssimarsi della morte, l’affidamento della tutela dei figli e
l’inventario dei beni di proprietà del defunto con la promessa di amministrarli
in maniera accorta. Ottenne inoltre dai giudici il permesso di continuare a
condurre il banco di prestito che aveva retto in città con Salomone, e nel
farlo scelse di avvalersi della collaborazione del fratello Abramo che avrebbe
più volte incaricato di rappresentarla nelle vesti di procuratore. Le notevoli
capacità di Gentile in campo economico si erano rivelate, ancor prima della
possibilità di riapertura dell’attività feneratizia che le venne concessa,
nelle cause giudiziarie che aveva intentato per riuscire a rientrare in
possesso delle somme di denaro cedute in prestito dal defunto marito. Facendosi
rappresentare dal fratello Abramo in qualità di procuratore chiamò in giudizio
tra altre persone, per poter riavere le notevoli somme prestate, Orsa vedova di
Natale di Argento, una nobildonna triestina appartenente ad una delle famiglie
più illustri della città, e il maestro e poeta Raffaele “de Zovenzonibus”.
L’autonomia gestionale delle donne ebree in campo economico si concretizzava
anche nelle scelte intraprese in campo patrimoniale nell’avvicinarsi del
trapasso. Attraverso i lasciti testamentari le donne godevano della possibilità
di riequilibrare le scelte familiari in campo patrimoniale attraverso
l’istituzione di legati a favore delle figlie in aggiunta alla quota di denaro
prevista come dote che rappresentava l’unica parte dell’eredità cui esse
potevano aspirare. Generalmente infatti erano i figli maschi ad ereditare la
maggior parte delle sostanze del padre mentre le figlie si dovevano
accontentare della sola somma loro destinata in dote, a meno che fossero prive
di fratelli o nel caso in cui vi fosse una esplicita disposizione testamentaria
a loro favore.
Bibliografia
Ebrei nella
Terraferma veneta del Quattrocento - a cura di Gian Maria Varanini &
Reinhold C. Mueller / Ed. Quaderni di RM Rivista, 2
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