L'infanzia e l'adolescenza nel tardo medioevo
Testo di Claudio Barbaglio, ogni diritto riservato
Vivere la
quotidianità, nel medioevo certo non era un gioco, e per un infante
sopravvivere dall’atto dalla nascita all’età adulta, rappresentava, di sovente,
un percorso estremamente complesso e, troppo spesso, affidato a “preziosissime”
leggi naturali, e metodi, dettati credenze popolari e religione.
Fin dai
primissimi istanti di vita, uno delle primissime azioni che venivano compiuti
era l’impartire il sacramento del Battesimo: la mortalità infantile era così
elevata che la chiesa voleva, ad ogni costo, garantire al nascituro
l’assoluzione del peccato originale.
Superata la
prima fase, però, le circostanze di vita si dimostravano comunque ardue: il
benessere del giovincello, fino al sopraggiungere dell’età che oggigiorno
definiamo “adolescenziale”, ma per l’epoca praticamente maturo, non era
garantito da un’attenzione rivolta alle necessità di un corpo in fase di
sviluppo, essendo considerato, a tutti gli effetti, un adulto in “miniatura”.
Questo aspetto lo si evince dai moltissimi trattati di medicina, o di salute in
generale, dove le norme e i consigli per la cura del corpo e delle malattie
raramente si interessavano della componente più debole della società, se non dispensando
rari consigli rivolti all’igiene dei neonati all’alimentazione delle gestanti.
Un momento
della quotidianità che si riscontra largamente anche nelle iconografie: i
bambini raffigurati rappresentavano, quasi esclusivamente, il “bambin Gesù” in
braccio alla madre, in fase di allattamento, quale modello di virtù; sarà solo
nel XV secolo che, con l’avvento dell’umanesimo, si tenderà a riscoprire un
valore sociale anche nei più giovincelli, adattando, per quanto possibile,
anche la dura vita medievale alle loro necessità.
Nella scuola
ad esempio dove, molte città, iniziarono ad imporre metodi meno severi e a
proporre modelli di studio adattati alle fasce di età, si riscoprono si
inventano molti nuovi giochi e, limitatamente ai tempi, si assiste ad una
rivisitazione delle fatiche dettate dal lavoro.
E se pur le
dure circostanze fossero attenuate da un sentimento d’amore dei genitori verso
la propria prole, lo stesso non poteva dirsi per tutti quei poveri infanti
abbandonati alla nascita e destinati, se morte prima non vi sopraggiungeva, a
prendere i voti, spesso senza vocazione, presso i monasteri o i conventi che li
accoglievano, o a prestarvi servizio,
spesso per un’intera vita, ridotti in stato di semischiavitù; ai più fortunati,
per i quali la vita riservava inaspettate occasioni, poteva capitare che
venissero accolti sotto il manto protettivo di un signore o un condottiero e,
un giorno, destinati a compiere, in suo nome, azioni di ambascerie o
arricchirsi in battaglia.
Una vita,
quindi, dettata in prevalenza dalla fortuna o malasorte di nascere nella giusta
famiglia, città o campagna, con la speranza che un fisico forte sopperisse alle
troppe lacune di una medicina e società ancora, all’epoca, troppo distratta nel
rendersi conto dell’importanza di essere bambini.
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