L’ALLEVAMENTO – INTERESSANTE FONTE DI RICCHEZZA

  Testo di Claudio Barbaglio, tutti i diritti riservati



Un settore che all’epoca si configurava tra i più ricchi di prospettive era sicuramente quello dell’allevamento, e per un imprenditore, o commerciante o anche banchiere, intuitene le potenzialità, rappresentava un’interessante investimento. Naturalmente, spesso, questi professionisti erano ben distanti dalle conoscenze pratiche, e fisiche, di cui ciò che queste attività richiedevano, così come dalla vita di campagna, e per questo furono introdotti dei societates vacharum, ovvero contratti stipulati fra due parti che si associavano per l’allevamento e lo sfruttamento di una certa quantità di bestiame e per l’esercizio delle attività connesse. I contratti di affidamento da parte dei proprietari di bestiame residenti in città ai piccoli proprietari di fondi rurali o ai pastori, frequentissimi fin dalla prima età comunale a seguito dello sviluppo di una vivace economia di scambio fra città e campagna, si evolsero con il passare del tempo: nel Quattro e Cinquecento in Lombardia, dove l’allevamento conobbe un grande sviluppo a seguito di una particolare diffusione della coltura dell’irriguo, furono soprattutto individui provenienti dalla bergamasca a svolgere un ruolo di primo piano in qualità di allevatori. Anche buona parte dei mellegarii, termine che indicava una funzione di allevatore in senso lato ma anche di contadino preposto alla lavorazione del cacio, proveniva dalle prealpi bergamasche, o per lo meno ne era originaria la famiglia, come attesterebbero gli attributi cognominali. Si tratta purtroppo di figure estremamente sfuggenti, in quanto le testimonianze raccolte sono assai scarse non solo sul loro vissuto (famiglia, residenza, attività etc.), ma anche in relazione ai termini in base ai quali si accordavano con il datore di lavoro (non essendo sempre specificato il loro compenso, la durata del contratto etc.). In alcuni casi, tra l’altro, ci si limitava a concedere loro suoi terreni ad fictum; altre volte affidava ai mellegarii la cura del proprio bestiame, offrendo allora spesso ospitalità nelle sue stesse possessioni.

Perdite e profitti venivano spartiti in primo luogo a metà fra gli allevatori e i proprietari delle bestie; questi ultimi li suddividevano in seguito tra di loro in quattro parti uguali. I ricavi derivavano dalla vendita di vacche, buoi, vitelli, latte, burro, formaggio, mascherpa, pelli. Visto il tipo di offerta non vi è da stupirsi che fra i tanti clienti compaiano dei becharii, Zanino de Massalia, Francesco de Barni, Martino de Merate becharius in Compedo; e dei formaggiai, Giovannino Paganone, Betto detto Tirabada e Antonio da Crema. Le vendite furono sicuramente redditizie. Il consumo di carne, piuttosto elevato durante il corso di tutto il Medioevo, aumentò infatti fra Tre e Quattrocento grazie allo sviluppo dell’allevamento bovino nelle campagne lombarde. I gusti dei consumatori si orientavano preferibilmente verso la carne di vitello da latte che era difatti la più costosa, seguita da quella di maiale e di agnello, di castrato e di montone, di manzo, di bue e infine di pecora e di mucca. A Milano il bestiame veniva contrattato nel Cordusio, mentre la carne al minuto era venduta sui banchi delle beccherie di Porta Vercellina e in quelle del Compedo, oppure nelle botteghe dei beccai sparse un po’ in ogni quartiere.

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